Trama: è primavera, al tramonto, le suore recitano l’Ave Maria. Concluso il canto la suora zelatrice rimprovera alcune monache. Le giovani vedono poi che un raggio di luce illumina la fontana, fenomeno visibile solo tre giorni all’anno. Alcune suore si abbandonano ai ricordi della vita prima del convento, altre scherzano sui propri desideri. Tutte sanno che l’unica cosa che vorrebbe Suor Angelica è avere notizie della propria famiglia, di cui non sa nulla da sette anni. Turba l’armonia del convento la notizia dell’arrivo di un’elegante carrozza che preannuncia visitatori: è la zia Principessa di Suor Angelica. Il suo arrivo ha un solo scopo: far firmare alla giovane delle carte a proposito dell’eredità di Anna Viola, sorella della protagonista. Quest’ultima alla fine trova il coraggio di chiedere notizie del proprio amatissimo figlio illegittimo che ha potuto vedere solo alla nascita, prima che glielo strappassero dal petto e la obbligassero a entrare in convento. La zia le risponde che il bimbo è morto da due anni. Il lamento di Suor Angelica, Senza mamma, è una delle pagine più strazianti dell’intera produzione pucciniana. La povera madre decide di mettere a frutto la propria conoscenza delle erbe e raggiungere il figlio. Pentendosi del peccato e implorando la grazia, si abbandona al veleno. La Vergine, commossa, le appare e insieme a lei, accompagnato da un coro di angeli, Suor Angelica vede anche il figlio.
“…metti in azione quanti personaggi vuoi, fa agire pure 3,4 donne? È così bella la voce di donna in piccola schiera; metti dei bimbi, dei fiori, dei dolori e degli amori”. Queste le parole scritte da Puccini a Gabriele D’Annunzio quando lo contattò per il soggetto e il libretto dell’opera centrale del Trittico, quella che avrebbe dovuto commuovere e coinvolgere più delle altre. Il fatto che la collaborazione tra uno dei maggiori poeti del suo tempo e l’autorità operistica dell’epoca non sia andata a buon fine (senz’altro per l’incapacità di entrambi i Maestri di piegarsi all’estetica e alla visione altrui) non rende meno importanti le parole pucciniane, che ci restituiscono l’idea germinale della sonorità e del contesto che renderanno unica Suor Angelica.
La storia della giovane rappresenta una pagina singolare caratterizzata dalla quasi totale assenza di voci maschili (presenti solo nel coro degli angeli finale). L’azione si svolge, infatti, in un convento, cosa che naturalmente preclude la possibilità di inserire uomini nel dramma. Già un’altra opera di Puccini presentava una situazione simile, anche se opposta: la Fanciulla del West, ambientata nei pressi di una miniera, in cui, fatta eccezione per la serva di Minnie, era presente un solo personaggio femminile: l’eroina. Ma le similitudini in realtà non finiscono qui. Il compositore lucchese in entrambe le opere sceglie di sfruttare il coro non come insieme omogeneo e indistinto, ma donando dignità solistica e caratteriale ad ogni voce e personaggio. Ecco che non troviamo un blocco di minatori o di suore, ma ruoli (ovviamente minori) con personalità diverse e ben delineate da Puccini con velocissime pennellate nelle poche battute che li vedono protagonisti. Questa scrittura, in qualche modo più vicina alla realtà, rende estremamente coinvolgenti e "vere" le situazioni che vengono a crearsi durante lo spettacolo, permettendo al pubblico di affezionarsi a ogni sfumatura dell’opera.
Quello che potrebbe sembrare uno svantaggio, la monotonia dell’ambientazione e l’apparente staticità della vita monastica, viene trasformato da Puccini in un fortissimo elemento drammatico quando il mondo esterno (rappresentato dalla zia Principessa), irrompe nella calma e nella tranquillità del convento in cui Suor Angelica vive da sette anni. Vediamo quindi quello che era stato fino al momento prima un ambiente a suo modo accogliente e confortevole (si potrebbe dire perfino infantile, abitato da fanciulle mai diventate adulte perché messe al riparo dalla durezza del mondo fin da giovanissime, sospeso in un tempo scandito da preghiere, lavoretti, piccoli bisticci e piccole gioie) trasformarsi in una prigione dorata che non ha permesso alla protagonista non solo di vivere la maternità, ma neppure di venire a sapere della morte del proprio figlio se non dopo anni.
Il personaggio di Suor Angelica è semplice, discreto, poco appariscente, dolce e generalmente sottomesso, nulla a che vedere con le sue sorelle maggiori come Tosca[1] o Minnie[2]. Più vicina all’innocenza di Butterfly, ha una maggior carica drammatica perché le viene negata la possibilità di vivere il suo forte e totalizzante amore materno.
Questo rende ancora più marcato il cambiamento che avviene in lei alla notizia della morte del figlio da parte di una zia incredibilmente glaciale, la cui “ostentata freddezza ha aspetti quasi patologici”[3]. È sicuramente interessante notare che il carattere opprimente, moralmente disgustoso e di tortura della scena è reso nella partitura originale da un accompagnamento di violoncelli e contrabbassi, gli stessi strumenti che sostengono il canto di Scarpia e Rance, personaggi negativi e (almeno per quanto riguarda il primo) feroci quanto la zia Principessa. L’aria Senza mamma, ritenuta da Girardi “uno dei brani meglio strutturati e al tempo stesso più appassionati che Puccini abbia mai affidato alla voce di soprano”[4], è in grado di colpire nel profondo lo spettatore, che non può che commuoversi alla vista del dolore sussurrato, lacerante proprio perché non urlato, di una madre disperata che arriva a non vedere altra soluzione che il suicidio, pur di ricongiungersi al figlio.
Il primo spunto per il libretto dell’Opera fu, per Forzano, il personaggio di Gertrude, la monaca di Monza. Accomunate da un ingresso in convento senza vocazione, le storie delle giovani donne si svilupperanno in maniera molto diversa. Se Gertrude, orgogliosa e sprezzante, disprezzerà la vita monacale tanto da rompere il più importante dei voti monastici (la sua incuranza è ben esemplificata fin dalla sua prima apparizione dal celeberrimo ricciolo ribelle), Suor Angelica apparirà più che altro assente e poco incline a partecipare ai giochi e ai piccoli momenti di gioia che accomunano le compagne. Non ascolta le parole delle altre durante la ricreazione e interviene solo se interpellata esplicitamente e dopo che le viene ripetuta la domanda appena fattale (“Suor Angelica, e voi? Avete desideri?”). Sembra quasi fluttuare sopra la vita del convento, come se niente potesse davvero raggiungerla, sempre con il pensiero rivolto al figlio. Il destino di morte di Suor Angelica è in qualche modo necessario perché, a differenza di Gertrude in cui l’amore è anestetizzato dall’odio e dal disprezzo e declinato nella forma più bassa possibile (l’amore carnale), in lei la passione è incandescente e inespressa, nella sua forma più pura e potente: l’amore materno. Suor Angelica e I Promessi Sposi hanno anche altri punti in comune, ad esempio il ritorno al convento delle sorelle cercatrici, accompagnato da un Laudata Maria, sembra un eco di quello, umilmente impreziosito da un Deo Gratias, di fra’ Galdino e l’addio di Suor Angelica al convento prima di morire ricorda necessariamente l’Addio ai monti di Lucia.
Continua il 02/05/22...
di Carlotta Petruccioli
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