Questa settimana Le Sacre du printemps compie ben 110 anni, quindi festeggiamo il suo compleanno comprendendone meglio alcuni aspetti.
Il Sacre è considerato uno dei capolavori del Novecento in quanto profezia/denuncia della barbarie sociale che caratterizzò il “secolo breve”. È senz’altro indispensabile specificare, però, che il sapore rivoluzionario che è stato visto in questa composizione non è frutto di una scelta volontaria dell’autore: nella Poetica della musica, ad esempio, Stravinskij afferma esplicitamente di non essersi mai considerato un rivoluzionario. Eppure, è innegabile che nel Sacre ci siano una tragica visione profetica del sacrificio dell’individuo e una novità tali da averlo reso celebre, per alcuni come capolavoro, per altri come “roba da matti”[1], fin dalla sua prima esecuzione.
Come scrive Mila (1983), il Sacre non è musica d’intelligenza, ma d’istinto. Bisogna considerare che, forse proprio per questo, non ha fatto scuola, non è riuscito a imporsi come modello, se non smembrato in spunti, come gli elementi ritmici o i timbri puri dell’orchestra[2] o l’ispirazione primordiale e primitiva[3] o ancora la ripetizione ossessiva di elementi apparentemente poco interessanti[4]. Eppure, il carattere istintivo estremo, che portava Stravinskij a saper suonare la Danza sacrale prima ancora di sapere come scriverla (e che sembra essere in qualche modo frutto della grande eredità della scuola russa), sarà un binario che nemmeno lo stesso compositore seguirà più[5].
È dunque l’intuito di un geniale orecchio a guidare la composizione, a partire da un’immagine onirica: una fanciulla viene sacrificata, davanti a un gruppo di anziani, per ingraziarsi il dio della primavera. Stravinskij, in effetti, afferma di aver sempre avuto in mente, durante la composizione, l’aspetto scenico dell’opera: è fondamentale, infatti, ricordare che il Sacre fu scritto per la compagnia dei Ballets Russes di Diaghilev. Nonostante questo, però, non si può non tenere conto della straordinaria autonomia della partitura, che nasce già come perfetta suite orchestrale[6]. Stravinskij, nella sua autobiografia, ricorda quanto la coreografia di Nijinsky (alle prese con il suo primo tentativo da coreografo) sia stata una delusione: dove il compositore immaginava movimenti semplici e puliti ad accompagnare la musica, il grande ballerino scelse di inserire figure tanto complesse da essere difficilmente eseguibili a tempo dalla compagnia. Dal racconto della prima fatto da Stravinskij (che ha qualcosa di vividamente teatrale che avvicina la sua autobiografia a quelle settecentesche di Alfieri e Da Ponte) riusciamo a immaginare un pubblico tanto rumoroso e litigioso da coprire completamente il suono dell’orchestra (cosa che sembrerà impossibile a chiunque abbia mai ascoltato anche solo pochi minuti del Sacre) e la voce di Nijinsky che tentava, da dietro le quinte, di ricordare i passi ai ballerini. Quella prima rappresentazione fu, senz’altro, uno scandalo assoluto che, a detta del compositore, non si sarebbe mai potuto immaginare, visto quanto l’opera fosse stata accolta positivamente dagli intellettuali che avevano assistito alla prova generale. Ma bisogna tenere conto del fatto che il vociare in sala non era solo di polemica, c’era chi difendeva la musica. E proprio in quest’ottica di dibattito attivo (per quanto violento) va vista la celebre reazione di Diaghilev allo scandalo: “Era proprio ciò che volevo”. Stravinskij non resiste alla tentazione di attribuire l’esito negativo della serata alla coreografia, affermando che, quando il Sacre venne riproposto in forma di concerto nel 1914, il pubblico “non più distratto dalle scene” ascoltò e apprezzò molto la sua musica. Sicuramente non una menzogna, ma altrettanto sicuramente una visione di parte. Il panorama musicale parigino dell’epoca, infatti, era abituato a tutt’altro: scrivevano ancora partiture lussureggianti compositori come Debussy e Ravel e il Sacre non poté che abbattersi “come una tremenda mazzata” (Mila) su coloro che apprezzavano tipi di musica tanto diversi.
Non bisogna, però, confondere la novità dell’idea musicale alla base della partitura con una sua novità assoluta (nel senso etimologico del termine). Il Sacre affonda le proprie radici nella tradizione musicale russa in quanto frutto di un orecchio russo, cosa che dona una patina di russicità, per dirla con parole di Musorgskij, a diversi punti della partitura, anche se l’unico tema realmente preso in prestito dalla tradizione (non russa ma lituana) è quello iniziale del fagotto, un tema pubblicato nel 1900 in una raccolta di melodie lituane. Un elemento, invece, della Parigi d’allora che fa capolino nella partitura è l’utilizzo della serie di Fibonacci e della sezione aurea: il movimento simbolista ne fu fortemente influenzato e nel 1912 a Parigi si tenne una mostra di pittori intitolato proprio “La section d’or”. Nel Sacre la serie di Fibonacci è presente già in quello che Vlad (2005) individua come Ur-motiv: un intervallo di quarta giusta (cinque semitoni) suddivisa in due intervalli di seconda maggiore e terza minore che forma così la serie dei primi numeri di Fibonacci 2,3,5[7]. È sicuramente significativo il fatto che la serie di Fibonacci rappresenti matematicamente le leggi che regolano la crescita organica della natura, quella natura che si spacca per generare una nuova vita nella violenta primavera russa. Ecco che arriviamo alla definizione riportata da Mila di “dramma biologico” del Sacre: un brano che rappresenta una natura prepotente e uomini ancora profondamente collegati a essa, uomini primitivi non ancor alluminati dalla ragione; da qui l’utilizzo massiccio di fiati e quello quasi esclusivamente ritmico degli archi (considerati da Stravinskij troppo vicini alla voce umana); da qui le posizioni imprevedibili di accenti come leggi di natura non ancora comprese dall’uomo; da qui il quasi perenne senso di pienezza dato da un’immensa orchestra, che sembra essere dominata dall’horror vacui, perché il vuoto è strumento dell’intelligenza, non c’è in natura. E da qui l’impressione di ascoltare la musica di macchine successiva che, come afferma Mila, porta a un triste parallelismo tra uomini non ancora illuminati dalla ragione e una civiltà moderna dominata da fredde macchine.
di Carlotta Petruccioli
[1] espressione di Puccini riportata da Mila (2014)
[2] che possiamo ritrovare nel divisionismo timbrico di Webern
[3] di cui sarà debitrice la Suite Scythe di Prokofiev
[4] che saranno un esempio per il linguaggio ripetitivo-minimalista della scuola americana, il compositore forse più noto in questo caso è Philip Glass
[5] come afferma Mila, se Stravinskij abbia poi raggiunto con la musica “d’intelligenza” le stesse vette che aveva raggiunto con la musica “d’istinto” è una questione ancora irrisolta e che dipende dal giudizio sull’intera musica dei nostri tempi
[6] a differenza di balletti come Pulcinella o Petrushka
[7] Se, però, in compositori come Bartók l’utilizzo di proporzioni fibonacciane è intenzionale, nel caso del Sacre Vlad invoca ancora una volta il “sovrano istinto” di Stravinskij. La cellula dell’Ur-motiv è infatti presente in diversi canti antichi popolari: il primo Inno delfico, il Te Deum gregoriano e (nella configurazione scelta da Stravinskij) nel Canto dei battellieri del Volga.
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