top of page
  • Immagine del redattorePolimnia

Tournant musical et littéraire (prima parte)

Rieccoci dopo la pausa estiva! Questo articolo sarà un po’ diverso dal solito: un percorso tra letteratura (in questo caso Alfieri), mitologia e musica.

Vittorio Alfieri dipinto da François-Xavier Fabre, Firenze 1793

Vorrei partire da un’osservazione di Paratore nel suo saggio sull’Agamennone di Alfieri[1] per collegare alcuni nodi che ritengo fondamentali dell’esperienza teatrale alfieriana con alcune personalità musicali simili a quella di Alfieri: personalità a cavallo tra epoche. Come rileva Paratore le tragedie alfieriane di argomento mitologico sono una netta minoranza: sette su ventidue, ma contando anche la Merope (più una fase protostorica che mitica) e l’Alcesti seconda (una tardiva rielaborazione del modello euripideo). Abbiamo, quindi, il Polinice e l’Antigone, l’Agamennone e l’Oreste e molti anni dopo la Mirra. Interessante è notare che le due coppie di tragedie gemelle appartengono ai primi anni di attività tragica e rimandano a due delle saghe mitiche fondamentali della mitologia greca: quella dei Labdacidi e quella degli Atridi. Entrambe hanno avuto enorme fortuna nella cultura occidentale e sono state riprese e rielaborate dagli intellettuali per secoli. Come non pensare, ad esempio, all’utilizzo che la psicanalisi ha fatto della figura di Edipo e di quella di Elettra o alle numerose interpretazioni del personaggio di Antigone (che è stata via via vista come un’eroina femminista o pacifista, un modello della ribellione a tutto ciò che si nasconde dietro la “ragion di stato” o un archetipo femminile di pietas). O ancora al personaggio di Elettra, che riunisce tutti e tre i tragici antichi, che fa parte dell’unica trilogia pervenutaci completa dell’antichità e che ha affascinato gli artisti per secoli: ad esempio Strauss e la sua Elektra, una delle opere in un atto che fiorirono a inizio Novecento, insieme a Pagliacci, Cavalleria Rusticana e ovviamente al Trittico, con la meravigliosa Suor Angelica, che ci ha accompagnato tutto l’anno scorso).

Igor Stravinskij a cinquant'anni circa

Vorrei, però, soffermarmi un attimo su una rielaborazione della regina delle tragedie, l’Edipo Re, da parte di Stravinskij, che ci permette di fare un altro parallelismo tra musica e Alfieri. Stravinskij compose l’Oedipus rex tra il 1926 e il 1927, in un periodo in cui, come ricorda Massimo Mila[2], il melodramma era ormai considerato superato dai musicisti all’avanguardia (in Italia, dove l’Opera è sempre stata una forma musicale fondamentale, Toscanini aveva detto, proprio nel 1926 alla prima della Turandot: “Qui l’opera finisce, perché il Maestro è morto”, e molti hanno interpretato questa frase non come riferita alla sola Turandot, ma quasi come una profezia sull’Opera in generale) e le forme musicali dei secoli precedenti (fatta eccezione per Bach) considerate utilizzabili solo come materiale per scherzi musicali buffoneschi e parodie. Ecco, però, che Stravinskij pubblica un’opera-oratorio che non ha nulla di parodico, che affonda le radici nella tradizione del melodramma con serenità, superando il classico con l’imprimervi un’impronta propria, proprio come vediamo fare ad Alfieri con la materia mitologica. Quando ancora non aveva scelto il soggetto, Stravinskij era sicuro di un’unica cosa: che avrebbe voluto dedicarsi a un progetto grande ed impegnativo. Doveva, quindi, volgere lo sguardo all’Opera, un genere che aveva messo in difficoltà alcuni tra i più grandi compositori (primo tra tutti Beethoven). Si rese conto, però, di una cosa (che Alfieri aveva compreso più di un secolo prima): che per trattare argomenti sublimi era necessario un linguaggio speciale. Stravinskij scelse il latino (e da notare: latino con pronuncia restituta): una lingua che considerava non morta, ma pietrificata, sospesa nel tempo ed eccezionalmente dura. Dura come la musica che scrisse e pietrificata come i personaggi che immaginò, statue immobilizzate da costumi rigidissimi a cui era possibile muovere solo le braccia. Quante similitudini con il verso tragico di Alfieri, che scriveva, a suo dire, in “una lingua morta per un popolo morto[3]”, come riporta Raimondi[4], estendendo poi quest’affermazione alla natura intrinseca del teatro alfieriano, definendolo un “teatro di morti”. Un teatro di morti perché, usando sempre parole di Raimondi, i personaggi alfieriani sono “ombre sull’abisso” con una forte vocazione di morte in alcuni casi o con un grande dissidio interiore in altri. Sono fantasmi o larve che si muovono in un mondo irreale, onirico, in cui le forti passioni dei personaggi hanno un’enorme potenza deflagrante e diventano il motore della tragedia.


Continua il 03/10/22...


di Carlotta Petruccioli

[1] E. Paratore, L’Agamennon di Seneca e l’Agamennone di Alfieri, in Dal Petrarca all’Alfieri: saggi di letteratura comparata, Olschki, 1975. [2] M. Mila, Compagno Strawinsky, Einaudi, 1983. [3] Espressione data dal fatto che l’italiano all’epoca non era utilizzato dal popolo, a differenza di quanto succedeva all’estero, dove il pubblico parlava la lingua che i personaggi utilizzavano in scena. Ecco perché Alfieri disse anche di scrivere per un “pubblico inattuale”, intuendo e sperando che in Italia la situazione sarebbe cambiata. [4] E. Raimondi, Le ombre sull’abisso, in Le pietre del sogno, Il Mulino, 1985.

Post recenti

Mostra tutti
Post: Blog2_Post
bottom of page