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  • Immagine del redattorePolimnia

Musica dal Nuovo Mondo


Copertina del film di Vincente Minnelli ispirato al poema sinfonico omonimo di George Gershwin

Oggi è il 4 luglio, data che non possiamo fare a meno di associare all’America: stelle e strisce, blues e jazz, barbecue, abbigliamento country con stivali e cappelli da cowboy, risate…tutto questo balena immediatamente nella nostra mente, in un turbinio di colori, profumi e, soprattutto, suoni. Parlando di musica e di musica classica (o meglio colta), gli Stati Uniti evocano immancabilmente l’immagine di George Gershwin. Nonostante la sua musica sia ben più vicina al blues e al jazz che alla musica classica propriamente detta, non possiamo assolutamente escluderlo dal novero dei musicisti “colti”.

Si racconta che quando, nel 1928[1], George si trasferì per un periodo a Parigi per studiare con i grandi Maestri europei[2] dell’epoca, Ravel si sia rifiutato di dargli lezioni chiedendogli perché si ostinasse a imitare i musicisti europei e a cercare di diventare un pessimo Ravel quando era già un ottimo Gershwin. Non si può certo dargli torto: la vitalità, la freschezza e la nota di ribellione sempre presenti (anche nelle composizioni più “classiche”) rendono il suo stile (così vicino al jazz) assolutamente inconfondibile e unico.

La Rapsody in Blu è sicuramente il suo brano più noto e con ogni probabilità risveglierà in voi ricordi ormai lontani: una tazza di latte, un paio di biscotti (so che erano Gocciole e che, di nascosto, ne avevate rubate dal pacco almeno due in più di quelle che vi erano state concesse) e un bel film Disney: Fantasia 2000.

Ma come non parlare di Un Americano a Parigi? Al soggiorno parigino di George abbiamo già accennato; ebbene, proprio in quel periodo vede la luce questa splendida composizione. “Un Americano a Parigi è la musica più moderna che io abbia mai scritto. […] Il mio assunto consiste nel riprodurre le impressioni di un viaggiatore americano che passeggia per Parigi ascoltandone i suoni e i rumori e assorbendo l’atmosfera della Francia. Ma c’è molta libertà, e chi ascolta può leggere nella musica tutte le immagini che preferisce”. Con queste parole il compositore stesso presenta il proprio brano nel programma di sala della prima esecuzione avvenuta il 13 dicembre 1928 alla Carnegie Hall di New York. Niente, infatti, vi restituirà in maniera altrettanto efficace l’atmosfera della fine dei ruggenti anni ‘20 nella città per eccellenza: Parigi. Il tutto condito da una bella e sbarazzina dose di “americanità”. Ma proviamo a seguire la partitura.

La “passeggiata” scanzonata iniziale (impossibile non farsi convincere dall’oboe e dai violini a immaginare un uomo con completo blu che fa roteare un bel bastone di legno chiaro, magari in bamboo) viene interrotta dallo strombazzare di un clacson, forse un taxi. Sentiamo poi, quasi in lontananza, una vecchia melodia affidata ai tromboni. La passeggiata riparte e ci si ritrova in un quartiere caotico e colorato. Un seducente solo del violino introduce un’atmosfera del tutto differente, che viene accolta e resa ancor più sensuale dal fagotto che, con un’apparentemente banale nota tenuta e preceduta da una breve acciaccatura, apre in maniera così semplice e allo stesso tempo perfetta la strada al meraviglioso tema della tromba, ripreso poi dagli archi. In questa sezione del brano vediamo ciò che, a mio parere, contraddistingue maggiormente lo stile di Gershwin: la capacità di sfruttare il timbro degli ottoni (soprattutto trombe e tromboni) non solo per effetti vagamente rumoristici (che rimangono comunque caratteristici di un certo stile e spesso utilizzati per questo dal compositore), ma anche per temi struggenti che rubano la scena a qualsiasi altro strumento dell’orchestra: è proprio l’evidente amore per la sonorità degli ottoni quello che i greci antichi chiamerebbero σφραγίς ‘sigillo/firma’ di Gershwin. Questo momento più “blues” si conclude e torna l’allegria grazie a un brillante ritmo di charleston. Dopo qualche momento di stasi torna il motivo della passeggiata che conduce al grandioso finale, dominato, ovviamente, da ottoni, percussioni e sax.

Vado a concludere questa veloce panoramica sui principali lavori di Gershwin citando la notissima “american folk opera” (come la descrisse l’autore) Porgy and Bess, di cui tutti abbiamo sentito almeno l’aria più nota: Summertime. Quest’opera è presa spesso come esempio della capacità del compositore americano di fondere diversi stili, spaziando dallo stile orchestrale europeo al jazz.

Non dimentichiamo, infine, il bellissimo Concerto in Fa, che proprio per la caratterizzazione “mista” viene ascritto al genere del jazz sinfonico. Piuttosto simile per alcuni versi alla Rapsody in Blu racchiude in sé gran parte delle caratteristiche tipiche del proprio autore: l’uso smaliziato di giochi ritmici, l’assoluto predominio di percussioni e ottoni in orchestra, i veloci passaggi da sezioni travolgenti per sonorità e ritmicità a sezioni delicatamente malinconiche.

Chi mi conosce personalmente sa che suono da anni in orchestra e posso dire con orgoglio di aver suonato tutti i brani citati in questo articolo, eccezion fatta per Porgy and Bess. Spero di aver trasmesso almeno in parte le sensazioni stupende che suscitano le opere di Gershwin in chi le suona e, di conseguenza, in chi le ascolta!

[1] Nel 1928 aveva già alle spalle grandi successi come la Rapsody e il Concerto in Fa. [2] Non dimentichiamo che con la nascita delle scuole nazionali tra Otto e Novecento nacque anche la scuola americana, ma che i più grandi compositori del nuovo mondo continuarono a studiare nel vecchio, al Conservatoire Américain de Fontainebleau, in cui insegnò orchestrazione la grande Nadia Boulanger, che ebbe tra i propri allievi personaggi di spicco come Gershwin, Copland, Bernstein, Pizzolla e Glass.


di Carlotta Petruccioli

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